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Il freddo sotto pressione

Le regole europee sugli F-Gas e la sfida delle piccole imprese del settore refrigerazione

Di Massimo Moscati, direttore editoriale di PR Planet Refrigeration

La regolamentazione europea sugli F-Gas sta ridefinendo il profilo del settore della refrigerazione.

Una rivoluzione necessaria, nata per ridurre l’impatto climatico dei gas fluorurati e accelerare la transizione verso soluzioni naturali, ma che oggi rischia di pesare in modo sproporzionato sulle spalle più fragili della filiera: quelle delle piccole imprese artigiane.

Le nuove restrizioni introdotte dal Regolamento (UE) 2024/573 — che prevede una riduzione progressiva delle quote e il divieto di vendita di apparecchiature contenenti refrigeranti ad alto GWP — rappresentano un cambio di paradigma per l’intero settore.

Tuttavia, il passaggio ai nuovi refrigeranti naturali o sintetici a basso impatto comporta investimenti in formazione, attrezzature e sicurezza che per molte PMI risultano onerosi o addirittura insostenibili.

Mentre i grandi gruppi industriali possono contare su uffici tecnici, piani di riconversione e partnership strategiche, l’artigiano frigorista si trova spesso solo a gestire una normativa in continua evoluzione, tra corsi obbligatori, certificazioni e clienti che chiedono soluzioni immediate e a basso costo.

L’obiettivo ambientale è condiviso da tutti, ma le modalità di applicazione rischiano di creare una frattura sociale nella catena del freddo.

Molte microimprese italiane, che per decenni hanno rappresentato l’ossatura tecnica del settore, vivono oggi un senso di smarrimento: devono aggiornare strumenti, bombole, pompe e bilance; formarsi sui gas infiammabili come propano e CO₂; gestire nuove responsabilità burocratiche.

Il tempo che prima era dedicato al lavoro operativo è ora speso per adempiere a obblighi documentali e normativi, spesso poco chiari o differenziati tra Paesi.

Non mancano, certo, i benefici: le normative F-Gas hanno spinto la filiera verso una maggiore professionalizzazione, riducendo l’improvvisazione e migliorando la qualità delle installazioni.

Ma resta aperta la domanda: chi accompagna i piccoli operatori in questa transizione?

Molti frigoristi si trovano di fronte a una contraddizione: le istituzioni invocano la sostenibilità, ma non sempre forniscono strumenti di sostegno economico o percorsi formativi accessibili. I bandi europei e i programmi di incentivo raramente raggiungono le microaziende, per le quali anche un semplice corso certificato o la sostituzione di una stazione di recupero può rappresentare un peso significativo.

Il rischio è che la rivoluzione verde del freddo finisca per concentrare il mercato nelle mani di pochi grandi player, erodendo quella rete capillare di competenze artigiane che per anni ha garantito efficienza e tempestività nei servizi di assistenza e manutenzione.

Un rischio non solo economico, ma culturale: perché la refrigerazione non è fatta solo di componenti, ma di esperienza, manualità e conoscenza diretta del campo.

Servirebbe una strategia più equilibrata, che unisca rigore ambientale e tutela del tessuto produttivo.

Ad esempio, creando un sistema di voucher formativi e tecnologici per le PMI, piattaforme di rigenerazione condivisa dei refrigeranti e canali di dialogo più chiari tra le autorità e le associazioni di categoria.

Solo in questo modo la transizione verso refrigeranti naturali potrà diventare davvero inclusiva, anziché punitiva.

La sostenibilità non può essere un lusso per pochi: deve restare accessibile anche a chi, ogni giorno, mantiene in funzione il “freddo buono” — quello che conserva alimenti, vaccini e servizi essenziali.

Perché la rivoluzione climatica del settore non avrà successo se perderemo lungo la strada proprio i suoi artigiani.

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